Dal popolo al leader, dal tarocco ai libri:
“La Cina in dieci parole” oltre gli stereotipi


	
  Lo scrittore Yu Hua racconta il Dragone attraverso il suo speciale lessico. Un canto di amore e dolore, secondo la traduttrice Silvia Pozzi, che aiuta a comprendere meglio un paese complesso. Ma a scoprire anche la parte nascosta di noi
Una bambina assiste all’alzabandiera in piazza Tian’anmen
 

Lo scrittore Yu Hua racconta il Dragone attraverso il suo speciale lessico. Un canto di amore e dolore, secondo la traduttrice Silvia Pozzi, che aiuta a comprendere meglio un paese complesso. Ma a scoprire anche la parte nascosta di noi



di Luca Zorloni (左露珂) 

Milano, 29 luglio 2012 – Seconda economia mondiale, terzo paese per estensione territoriale, abitato da un miliardo e 300 milioni di persone divise in 56 etnie che parlano 292 lingue e adoperano quattro alfabeti diversi, nazione dotata di cinque fusi orari, record mondiale per numero di iscritti a un partito – quello Comunista con i suoi 66 milioni di tessere, suolo calpestato dalla ciclopica Grande Muraglia e dal treno più veloce sulla faccia della terra, la Cina non è paese da riassumere. Yu Hua, scrittore, ci è riuscito in dieci parole. Popolo, leader, lettura, scrivere, Lu Xun, disparità, rivoluzione, morti di fame, taroccato (shanzhai), intortare (huyou) sono il lessico di La Cina in dieci parole, fotografia anti-stereotipo scattata dal dentista divenuto scrittore, già autore di Torture, Vivere!, Brothers. Per Silvia Pozzi, traduttrice ufficiale di Yu Hua in Italia e ricercatore di Lingua e letterature cinese all’Università Bicocca, l’impresa è riuscita perché “ha usato le sue parole per descrivere la sua Cina. Di ieri e di oggi. Si tratta di un pretesto per raccontare molte altre parole, del suo paese ma per contrasto anche del nostro”.

Partiamo dalla prima parola: popolo. Yu hua dice che un tempo aveva un significato chiaro: “operai, contadini, soldati, studenti e commercianti”, mentre ora quell’unità si è smembrata. Come è possibile aver cancellato definitivamente questa memoria?

Piazza Tiananmen è stata lo spartiacque, prima e dopo si osservarno due realtà diverse. Fino a Tiananmen i cinesi erano ancora disponibili a unirsi dei fini comuni, non a caso la parola compagno è la stessa di volontà. Dopo, con Deng Xiaoping, la fame di passione è stata convogliata in un altro fiume, quello dell’interesse economico. Yu Hua spiega che prima dell’89 in università si sentivano ovunque gli echi dei dibattiti, dopo gli unici suoni sono quelli dei giochi e delle lezioni di inglese, un mondo, badiamo bene, molto più simile al nostro”.

Nel secondo capitolo Yu Hua ammette che per lui l’unico leader è Mao Zedong e racconta dell’eroismo che solo il Grande Timoniere sprigiona persino ritratto in accapatoio. Di quel leader sono spuntate versione tarocche e il popolo dimostra la nostalgia del sentimento maoista. Perché?

“Yu Hua dice che una volta c’era il leader, oggi invece si hanno solo funzionari. Una domanda che fa riflettere anche noi italiani: noi oggi abbiamo leader e funzionari? Mao ha un’immagine ambivalente, è stato la madre e il padre della Cina, il presente e il passato recente. Yu sottolinea sempre che questo leader aveva due caratteristiche che sono merce rara: la stoffa dello statista e l’intuitività del poeta. Lo scrittore riconosce che ci sono stati errori e passi falsi, ma la nostalgia di ieri dimostra che attraverso il revival di un passato faticoso si riflette su un presente faticoso. Lo ricorda come un’epoca dorata, di umanità, in cui non c’è stato solo il rosso del sangue, ma anche sentimenti di tenerezza e di vicinanza. Tra le cose più interessanti bisogna rilevare che mentre negli anni del maoismo le lotte tra classi sociali erano predicate ma nella pratica non c’erano, oggi si è tanto diversificata la società che il popolo è centellinato in tantissime stratificazioni”.

Quando racconta dei morti di fame. Yu Hua ricorda l’impennata di storie di self-made man. Ma ci sono buoni modelli in questo sottobosco di arricchiti?

“La sua descrizione tradisce due posizioni. Da un lato c’è una sorta di allarme per l’impennata con cui alcuni uomini diventano ricchissimi in breve tempo e con altrettanta rapidità bruciano il successo. Non hanno nulla da perdere, e l’allarme si origina da occasioni fallaci o brevi. Emerge un’altra lettura, più cinese, più tenera, che dimostra come il successo risieda nel far tesoro di una saggezza pragmatica. È un buon senso comune, popolare, che rende meno antipatici certi businessman improvvisati. I buoni modelli possiamo cercarli direttamente tra le storie di imprenditori cinesi in Italia, storie di cooperazione, di imprese che si radicano nel territorio, che creano domanda e offerta”.

A proposito di questa zona grigia del made in China, è interessante leggere come Yu Hua descrive il fenomeno dell’huyou, “intortare”, di limiti vaghi ed espedienti.

“Non c’è una risposta. L’invito è a leggere quel fenomeno nel suo aspetto positivo. La vaghezza dei limiti e gli spazi che si sono creati, le leggi in rifacimento e in miglioramento, le maglie larghe permettono alle persone di intrufolarsi per portare acqua al proprio mulino. È uno spazio che ha consentito ai cinesi di esprimere la loro opinione. Spesso e volentieri ridere e deridere diventa occasione di dimostrazione delle proprie idee, come nel caso dei telegiornali in concorrenza con quelli ufficiali che divulgano notizie che non arrivano ai canali mainstream. Come si risolve questa situazione? Non lo so. E come se io chiedessi: come ti facciamo in Italia?”

Nel capitolo “Scrivere” infine, Yu Hua si scopre, perché racconta come si sia originata la sua sensibilità per lo splatter dallo shock per le esecuzioni a cui assisteva da piccolo. Da sua traduttrice, come valuta questa confessione dello scrittore?

“Il dettaglio del ricordo agghiacciante dell’esecuzione non lo conoscevo, ma che qualche orrore contaminasse la sua scrittura era chiaro a chi segue Yu Hua da anni. Il trauma è stato elaborato: da una prima produzione con racconti che non ti concedono di respirare per la velocità con cui si susseguono, è cresciuto sia come uomo sia come scrittore e così racconta l’orrore ma anche l’esplosione di gioia. Essere stato così a contatto con il trauma gli ha dato la spinta per riuscire a tratteggiare tutta la varietà delle emozioni umani. È un collante fortissimo con il lettore. Rivela un sacco di aspetti spinosi della sua Cina, come quando da guardia rossa si è mosso con gli amici volontari per picchiare un contadino che vendeva pochi buoni dell’olio al mercato nero per far sposare i propri figli. Nella postfazione e nella prefazione, che sono la filigrana del libro, racconta quando, da medico, effettuava le profilassi e nelle campagne e rievoca come le iniezioni facessero lacrime dei bambini perché gli aghi, piegati dal continuo utilizzo, strappavano la pelle dei piccoli. Solo grazie a quel pianto ha ripensato agli operai che al contrario sopportavano la sofferenza a denti stretti. Dal dolore dei bambini spiega di aver capito il dolore dei grandi e da là ha derivato che se c’è un linguaggio comune che apre i nostri occhi agli altri è proprio il linguaggio del dolore. Il questo La Cina in dieci parole ci rende porosi al dolore della Cina e di conseguenza ci permette di comprendere il nostro”.

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