Ecco i dim sum bonds,
il piatto forte della China-finanza


	
  I titoli denominati in renminbi sulla piazza offshore di Hong Kong attraggono un numero crescente di investitori esteri. L'Italia è ancora timida ma recenti aggiornamenti legislativi rendono conveniente l'emissione di obbligazioni in valuta cinese
La borsa di Hong Kong
 



I titoli denominati in renminbi sulla piazza offshore di Hong Kong attraggono un numero crescente di investitori esteri. L'Italia è ancora timida ma recenti aggiornamenti legislativi rendono conveniente l'emissione di obbligazioni in valuta cinese



di Luca Zorloni (左露珂)

Milano, 21 luglio 2012 – I dim sum bonds, le obbligazioni in renminbi emesse sul mercato offshore di Hong Kong, già dal nome potrebbero piacere agli investitori italiani avvezzi alla buona tavola: si chiamano dim sum infatti, come il piatto tipico dell’ex colonia britannica servito durante la cerimonia del tè. Ancora di più piaceranno alle imprese del Belpaese che intendono intensificare i propri rapporti commerciali con il Paese di Mezzo, perché i buoni, denominati con la divisa della Repubblica Popolare Cinese, permettono di operare direttamente con la moneta della seconda economia globale su una piazza, Hong Kong (e non solo), che ambisce a recuperare il titolo di numero uno in Asia scippatole da Shanghai e Singapore.

I dim sum bonds sono stati “brevettati” nel luglio del 2007 e la prima emissione è stata effettuata dalla China Development Bank. Fino a due anni fa erano “merce” riservate alle sole banche del Dragone e dell’ex colonia inglese. A oggi il 77% di questo tipo obbligazioni, pari a 16.306 milioni di dollari, è distribuito da investitori cinesi. La novità però non è passata inosservata nell’Eurozona, specie dopo l’apprezzamento del renminbi nel 2011. Il Vecchio Continente ha in breve guadagnato una quota del 9% nelle emissioni (1.963 milioni di dollari), superando Asia (8%) e Americhe (5%) benché abbia sviluppato il proprio interesse solo più tardi. Negli Stati Uniti l'emissione ha già impegnato 843 milioni di dollari, la Francia 723, la Germania 688 e il Giappone 562. E mentre Londra accende i motori per qualificarsi come la principale piazza europea per chi opera con gli renminbi, anche nel Belpaese si inizia a parlare di dim sum bonds.

“Diversamente da altri emittenti in Europa però, nessuna società italiana ne ha ancora approfittato”, spiegano gli esperti dello studio legale Clifford Chance, che sul tema ha organizzato una tavola rotonda in collaborazione con la Fondazione Italia-Cina. E aggiungono: “Investire in titoli in renminbi consente agli investitori retail di diversificare il proprio portafoglio e bilanciare i rischi”. Secondo i dati rielaborati dallo studio legale, “nel 2011 il valore delle emissioni dim sum bonds nel mondo è triplicato passando a 17,9 miliardi di dollari rispetto ai 5,9 miliardi del 2010”. Oltre alle grandi istituzioni cinesi operanti all'estero, hanno fatto ricorso allo strumento multinazionali come McDonald's, BP, BSH Bosch und Siemens, Tesco, Volkswagen e Unilever.

Grazie all’articolo 32 del decreto sviluppo, in Italia l'accesso a questo tipo di emissioni è stato aperto anche alle società non quotate, allargando così il mercato dei titoli made in China alle piccole e medie imprese. Perché i buoni di Hong Kong sfondino nel nostro Paese molto però dipenderà dalla soluzione del capitolo tassazione, per rendere più convenienti i rapporti commerciali. Filippo Emanuele, socio Capital markets di Clifford Chance, precisa infatti che “le uniche criticità esistenti, ma risolvibili, sono di tipo fiscale, analoghe a quelle per emissioni di Eurobond”. In Italia l’ex colonia britannica è ancora considerata “black list” e l’imposizione fiscale sui China bonds alla fonte è del 20%, il che implica l'innalzamento del funding. Roma e Hong Kong hanno già stipulato un trattato per l’eliminazione della doppia imposizione e il documento ora dovrebbe essere ratificato in Parlamento. Il passaggio all’agenda della Camera non è stato ancora programmato, ma secondo Carlo Galli, partner di Clifford Chance, “l’iter dovrebbe concludersi entro la prima metà del prossimo anno”.

I dim sum bonds rappresentano il biglietto di andata verso il cuore delle operazioni commerciali e finanziarie in renminbi: oggi solo il 9% delle transazioni tra Cina ed estero è regolata in yuan, ma gli esperti prevedono che la percentuale crescerà in relazione al secondo posto tra le economie globali occupato dal Paese di Mezzo. Tra Roma e Pechino, ad esempio, l'anno scorso sono stati mossi 51 miliardi di dollari e secondo Li Bin, diplomatico del Consolato Generale della Repubblica Popolare Cinese a Milano, entro il 2015 raggiungeranno gli 80 miliardi. Stati Uniti ed Europa chiedono la piena convertibilità dello yuan perché lo renminbi si unisca a dollaro, euro, sterlina e yen come riserva di valuta del Fondo monetario internazionale. Ma come ha dichiarato il governatore della People's Bank of China Zhou Xiaochuan al Washington Post nel novembre 2011, mentre per la piena convertibilità non esiste ancora una tabella di marcia, il mercato offshore dello yuan sta accelerando ben più velocemente di quanto l'istituto centrale avesse previsto. E alla tavola dei dim sum bonds bisogna aggiungere posti. Sempre che il convitato di pietra, alias la crisi, lo permetta.

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