Hong Kong, 24 agosto 2012 – Un pool di studiosi cinesi sta mettendo a punto un metodo per riciclare le milioni di tonnellate di rifiuti alimentari prodotti quotidianamente nel mondo e trasformarle in energia pulita. Carol Lin, professoressa alla scuola di Energia e Ambiente della City University di Hong Kong ha presentato questo progetto a Philadelphia durante il meeting dell’American Chemical Society.
Gli scarti di cibo possono essere riconvertiti in materie plastiche, detersivi per il bucato o altri prodotti di uso quotidiano grazie all’impiego di un mix di microrganismi che, con la secrezione di enzimi, possono trasformarli in acido succinico, un “mattone” fondamentale per la sintesi chimica di molti materiali. Questa nuova tecnica consentirà anche di ridurre l’utilizzo per i biocombustibili di mais e colture alimentari, sempre più scarsi e costosi in questo periodo di siccità in America, migliorando dunque la sostenibilità ambientale e l’utilizzo delle risorse. Inoltre, il loro smaltimento secondo questa innovativa procedura consentirebbe di ridurne l’impatto sull’ambiente dovuto ai vecchi procedimenti di smaltimento, oltre che trasformare i rifiuti in una fonte di ricchezza.
Alla creazione di questa nuova tecnologia, chiamata bioraffineria, sta collaborando il distaccamento hongkonghese della catena di caffetterie americana Starbucks. Nella sola metropoli sul Mar Cinese Meridionale, i bar della sirenetta verde producono circa 5000 tonnellate di rifiuti che venivano inceneriti o smaltiti in discarica, mentre verranno, da oggi, donati alla scienza e all’ambiente insieme ad un cospicuo investimento in denaro.
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Qingdao, 17 agosto 2012 – La città costiera del Nord-Est cinese torna ad essere per 15 giorni una colonia tedesca. Tutto grazie alla 22esima Festa della Birra, aperta a Qingdao dall’11 al 26 agosto, la Oktoberfest dell’Asia, che cade in estate. Più di 300 varietà di birra e 25 grandi marchi internazionali saranno a disposizione degli estimatori, insieme a numerosi eventi a tema, come bevute competitive e danze caraibiche..
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Il team di analisti Millward Brown ha individuato le imprese che si sono distinte con le loro strategie pubblicitarie e di brand communication. Campioni in casa propria, i top cinquanta arrancano all’estero. Dove devono lavare ancora più bianco
di Luca Zorloni (左 露珂)
Pechino, 25 aprile 2012 – Pechino lava più bianco. Perché più i panni sono bianchi, più piacciono ai consumatori. E più piacciono ai consumatori, più fanno guadagnare chi li produce. Basti pensare che nell’ultimo anno i cinquanta brand cinesi che hanno investito in pubblicità hanno guadagnato complessivamente 325 miliardi di dollari. Al Dragone e ai suoi 300 milioni di nuovi consumatori della classe media pare quindi che piaccia farsi corteggiare dalle promesse dei “mad men” delle Madison Avenue di Pechino. Millward Brown, gruppo di analisti di mercato, ha stilato la classifica dei 50 marchi di maggior successo del Paese di Mezzo, dimostrando che risorse in comunicazione e guadagni sul mercato vanno a braccetto. L’indice MSCI relativo alla Cina, un dato che misura i rischi di investimenti finanziari, perde il 6% negli ultimi 15 mesi; tranne per il “club dei cinquanta”, che guadagnano e non poco, + 20%.
Ma come si identifica un marchio col turbo? Ecco il profilo: è giovane (6 non esistevano 10 anni fa e più della metà è nata negli anni Novanta), è privato (sono solo il 30% del totale ma hanno le migliori performance) e ha i piedi piantati nella tecnologia. È il caso di Sina, colosso del web, che guida la classifica con un incremento del proprio valore del 244%, e di Beidu, il “Google” del Paese di Mezzo, che registra un incremento del 67% ma pari a 6,5 miliardi di dollari, più dell’incasso degli ultimi 12 marchi in classifica. E dello shopping cinese hanno beneficiato anche tre produttori di alcolici, due etichette di rimedi erboristici, due aziende alimentari e una di condizionatori.
Un dato significato è il brand contribution. È la misura dell’apporto che la costruzione dell’immagine del marchio fornisce al guadagno dell’azienda e coincide con quei fattori immateriali legati alla percezione del prodotto, che solleticano l’acquisto nonostante prezzo (alto) e raggiungibilità (negozi distanti). I cinesi dimostrano di essere consumatori sempre più informati e attenti ai valori espressi dalla marca, tanto da premiare chi investe nel proprio “biglietto da visita”. È ancora il caso di Sina, brand numero uno dei 10 cresciuti maggiormente nel 2011: giocando la carta della creatività, con l’invenzione della piattaforma di microblog Sina Weibo che tanti grattacapi sta dando alle alte sfere di Pechino, il colosso del web è una delle aziende percepite con più ammirazione dai figli dell’ex Celeste Impero. Una di quelle di cui si sente dire: “Vorrei lavorare là”. Granitica anche la reputazione dell’erboristeria Tong Reng Tang (al terzo posto tra le migliori performance) e di Yunnan Baiyao (il numero dieci), che produce la celebre polvere emostatica di baiyao, usata anche per creme, bendaggi e persino dentifrici. Entrambe le case farmaceutiche sfoderano un asso nella manica decisivo per conquistare i cinesi: il loro patrimonio culturale. Tong Reng Tang vanta un primato indiscusso: premiata azienda di rimedi tradizionali da 340 anni.
C’è anche la fiducia tra i valori strategici, un tema critico specie in campo alimentare a causa dei numerosi scandali che hanno scosso il Paese di Mezzo. Ma chi non mangerebbe il riso cucinato da una mamma amorevole? È l’immagine sfruttata da Fulinmen, il secondo brand per crescita nel 2011, re del chicco e dell’olio da cucina. Mentre Mengniu, azienda di cibi già pronti al numero 6, scommette sull’effetto Braccio di Ferro: i nostri alimenti danno forza alla Cina. Tanto bravi in casa, quanto sconosciuti all’estero. L’analisi di Millward Brown non lascia scampo al club dei cinquanta. La media dei guadagni dai mercati stranieri è inferiore al 5% e l’83% degli intervistati tra India, Malesia, Australia, Sud Africa, Regno Unito e Stati Uniti non sa citare nemmeno un nome di un’azienda cinese. Buio totale. Al di là della Grande Muraglia se la cavano Lenovo, che incassa il 50% dalle vendite dei propri pc; poi Haier, che realizza applicazioni per la manifattura, lo sport firmato Li Ning e un must della cena al ristorante cinese, la birra Tsingtao. Top 50 insomma, ma di strada ne resta da fare. All’estero, dove bisogna rubare fette di mercato ai marchi indigeni, e anche nel mercato interno, per scardinare il monopolio delle aziende di stato. I mad men devono farsi venire altre idee: lavare più bianco nelle Madison Avenue del mondo non basta.
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]]>Caffè, frullati e cioccolate sono sempre più popolari in Cina. Presto nuove città saranno raggiunte dal logo verde e oro di Starbucks, al ritmo di una ogni quattro giorni. I giovani cinesi fanno carte false per entrare a far parte della corporation americana, ma devono fare i conti con i dubbi dei propri genitori.
di Valeria Gazzoni
Pechino, 19 aprile 2012 – Sempre più sirene popoleranno i quartieri dello shopping cinese. E’ di questi giorni l’annuncio della compagnia americana di pianificare una ancor più intensa espansione sul mercato cinese. Howard Schultz, presidente di Starbucks Corp, nel corso dell’evento “Starbucks Partner Family Forum“, tenutosi ieri a Pechino ha dichiarato un obiettivo audace: portare il numero delle caffetterie cinesi da 570 a più di 1500 entro il 2015, inaugurando in media un nuovo punto vendita ogni 4 giorni. Queste cifre renderebbero la Cina la seconda tra le colonie del gruppo, seguendo direttamente gli Stati Uniti.
Le nuove aperture renderanno necessaria l’assunzione di alcune migliaia di nuovi lavoratori. Starbucks punta sui giovani cinesi, i figli unici delle grandi metropoli, ambiziosi e in attesa di iniziare la propria carriera professionale in un posto di lavoro “made in Usa”, ma deve scontrarsi con i pregiudizi dei loro genitori nei confronti di un lavoro che, dopotutto, consiste nel servire dietro il bancone di un bar. Per cercare di superare le loro rimostranze, la corp. a stelle e strisce si è resa protagonista di diversi eventi e attività promozionali. Tra questi, la campagna “Getting to know you” ha coinvolto circa 1100 dipendenti e i loro genitori, con lo scopo di “fargli conoscere” come funziona la vita delle caffetterie Starbucks.
Per rincarare la dose, a questo proposito Schultz ieri, nel corso del suo discorso, ha affermato : “Poichè il nostro business in Cina si espande senza sosta, noi dobbiamo condividere il nostro successo con i nostri collaboratori e con le loro famiglie“.
Le catene del fast food americano sono entrate prepotentemente nella quotidianità di molti ragazzi di Pechino, Shanghai e altre grandi città, ma faticano ad entrare nel cuore delle generazioni che hanno vissuto la Cina prima degli anni della modernizzazione, poco propense a vedere le zone più belle del loro paese “macchiate” dai loghi colorati delle multinazionali del consumismo.
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I nuovi ricchi del paese con la più forte crescita economica al mondo si confermano essere delle buone forchette: le esportazioni verso la Cina di prodotti alimentari di pregio made in Italy viaggiano a gonfie vele, ma non riescono a superare quelle dei semilavorati agricoli cinesi.
Roma, 16 aprile 2012 – L’alimentare italiano conquista le tavole cinesi, con un aumento delle esportazioni made in Italy del 36,6%, che trainano l’export di settore nel mondo (+12,7% di cui +9,9% Ue, +19,1% extra Ue): è quanto emerge da un’analisi Coldiretti sui dati Istat del commercio estero a febbraio.
Lo scorso anno, sottolinea l’associazione agricola, le importazioni di made in Italy alimentare in Cina sono cresciute del 30% rispetto al 2010, per un valore di 248 milioni di euro.
I cinesi sembrano apprezzare particolarmente vini e spumanti: nel 2011 le esportazioni di vino sono cresciute del 63%; addirittura più che triplicato (+235%) l’acquisto di spumante (7,6 milioni di bottiglie), in particolare Prosecco.
Cresce anche il gradimento del cibo italiano, soprattutto nella fascia di consumatori più abbienti (2,7 milioni di persone con oltre 600 mila euro di patrimonio personale): nel 2011 l’export di olio d’oliva è aumentato del 4%, quello dei dolci del 20%, quello della pasta del 60%, dei formaggi del 42%.
La bilancia commerciale agroalimentare risulta tuttavia ancora fortemente sbilanciata a favore della Cina, che ha esportato nel 2011 prodotti per 589 milioni di euro, più che doppio di quello italiano, e in aumento del 18%. Dal Paese, precisa Coldiretti, giungono in Italia soprattutto concentrato di pomodoro, aglio, semilavorati di frutta e verdura e legumi secchi. Per riequilibrare i rapporti, conclude l’associazione, è “necessario rimuovere le barriere commerciali ancora presenti in Cina”, in particolare quelle di tipo fitosanitario.
]]>Hong Kong, 13 aprile 2012 – “Poker” cinese per l’Accademia della cucina italiana che, dopo Pechino, Guangdong e Shanghai, ha inaugurato una delegazione anche a Hong Kong. La nuova sede è stata inaugurata alla presenza del presidente dell’Accademia, Giovanni Ballarini, del vicepresidente, Benito Fiore, e del console italiano, Alessandra Schiavo, che ha promosso e coordinato le diverse tappe dell’iniziativa. Con la delegazione di Hong Kong, il numero delle sedi estere dell’Accademia sale così a 78, che si aggiungono alle 212 attive in Italia.
Nata nel 1953, l’Accademia della cucina italiana ha intensificato negli ultimi anni la sua presenza all’estero, in linea con il suo obiettivo di promuovere le tradizioni della cucina italiana nel mondo. Lo scorso 24 marzo l’istituto ha inaugurato una sede a Pechino, la prima in assoluto in Cina, mentre il 27 marzo e’ stata stabilita una delegazione a Shanghai. A Hong Kong, 7 milioni di abitanti e circa 11mila ristoranti, gli esercizi autenticamente italiani, cioè gestiti da uno chef o da un proprietario italiano, sono oltre 70, tutti mediamente di livello buono o eccellente, mentre, secondo i dati del consolato italiano, sono almeno 150 quelli definiti “italiani” senza meritare questo appellativo.
L’apertura di una “filiale” dell’Accademia a Hong Kong, spiegano dalla sede diplomatica, “può contribuire a preservare e promuovere ulteriormente l’immenso ed unico patrimonio enogastronomico del nostro Paese“, in un panorama “tanto promettente quanto competitivo” dal punto vista enogastronomico.
]]>I coltivatori di Bordeaux, abituati da tempo ai compratori stranieri, devono ora affrontare l’invasione di capitali cinesi: sempre più appezzamenti vengono comprati da ricchi e famosi del paese asiatico
Parigi, 13 aprile 2012 – Invasione di yuan fra le dolci colline di Bordeaux, nelle vigne da cui nasce uno dei vini piu’ celebri al mondo. Dal 2008 a oggi, ben 17 piccoli ”chateaux” sono stati acquistati da proprietari cinesi, sull’onda di una moda che fa sempre piu’ adepti tra i nuovi ricchi del Paese della Grande muraglia.
In un periodo non facile per i piccoli produttori di Bordeaux, che spesso faticano a vendere la totalità della propria produzione su un mercato dominato dai grand cru e mancano della capacità per conquistare clienti sul nuovo mercato, gli investitori cinesi si presentano spesso come i salvatori delle imprese, acquistando l’intero chateau e consentendo di proseguire la coltivazione delle vigne e la produzione di vino.
Pioniere di questa tendenza era stato, nel 1997, il finanziere di Hong Kong Peter Kowk, che si era regalato lo Chateau Haut-Brisson, nell’area di produzione del Saint-Emilion. Negli ultimi anni Duemila, lo hanno imitato il conglomerato Longhai, basato a Qingdao, che ha comprato il Chateau Latour-Laguens nel 2008, un’altra holding di Hong Kong, A&A International, nel 2009 e un anonimo miliardario di Dalian, porto della Cina nordorientale sul Mar Giallo, nel 2010.
Il vero boom, però, è arrivato dalla fine del 2011 a oggi. ”E’ la follia – racconta al settimanale Le Point Daniel Carmagnat, responsabile di un’agenzia immobiliare specializzata della zona – è partito a tutta velocità, più di una quarantina di proprietà sono in corso di vendita, degli chateau che erano in vendita da tre anni”. Le cessioni completate, al momento, sono 14, realizzate da un ventaglio molto eterogeneo di acquirenti, dai grandi gruppi della distribuzione vinicola cinesi al magnate dei gioielli Shen Dongjun, fino alla star del cinema Zhao Wei e al citato Peter Kowk, vero esperto di colline bordolesi e bottiglie di pregio, che ha messo a segno altre due acquisizioni di primo livello.
L’invasione cinese, pero’, non sembra spaventare i vignaioli di Bordeaux, che sono ormai abituati alle ondate di stranieri che fanno a gara per accaparrarsi i loro piccoli “domaines”: prima erano stati gli inglesi, poi gli olandesi, ancora dopo i belgi, che restano i piu’ numerosi.
]]>L’Università Statale di Milano sta compilando un database di termini alimentari in vista dell’Esposizione Universale. Protagonisti principali del progetto gli ideogrammi cinesi, inseriti in uno speciale dizionario trilingue con italiano e inglese
di Luca Zorloni (左 露珂)
Milano, 3 aprile 2012 – Bere e mangiare. Sono le prime parole da imparare quando si studia una nuova lingua. Senza, non si va da nessuna parte. Figurarsi a Expo 2015, dove per sei mesi i 78 partecipanti finora accreditati parleranno da mane a sera di cibo. Una Babele di lingue che dovrà trovare un alfabeto comune per tracciare il futuro alimentare del pianeta, scambiando idee sui sistemi di sicurezza, sulle tecnologie per l’agricoltura e sui programmi per la nutrizione globale. Per questo il Dipartimento di Lingue e Culture contemporanee dell’Università Statale di Milano ha avviato il progetto “Parole per mangiare”, che prevede la realizzazione di un database di termini alimentari di nove lingue (italiano, arabo, cinese, francese, hindi, inglese, russo, spagnolo, tedesco) più, si attende conferma, giapponese, e di un dizionario “a tema” italiano-inglese-cinese. La super banca dati sarà allestita da una squadra di 19 docenti, guidati dal professor Javier Santos, ricercatore di Lingua Spagnola della Statale, e realizzata in quattro fasi, corrispondenti ad altrettante aree tematiche delle sette che caratterizzano Expo 2015: gastronomia, nutrizione, biotecnologie e sicurezza alimentare. Il capitolo gastronomia si è appena chiuso, “con la raccolta di circa duemila parole – spiega il professor Santos – e ora stiamo avviando la parte relativa a nutrizione e biotecnologie”.
Come funziona la ricerca? Gli studiosi selezionano per ciascuno dei nove idiomi le parole utilizzate per parlare di cucina e alimentazione e vengono creati “blocchi” di lemmi, identici per numero e significato, che sono poi analizzati, tradotti e messi a disposizione della comunità di Expo. Così un italiano che volesse spiegare le proprietà nutrizionali della pizza a una platea di cinesi potrebbe velocemente tradurre l’argomento della sua conferenza con la traslitterazione “bisabing”. Ma confrontare pietanze e cucine locali è una passeggiata in confronto al ginepraio che attende ora il team, impegnato sul fronte di nutrizione e biotecnologie. E non solo perché il campo è zeppo dei tecnicismi che circolano nei laboratori, ma anche perché da paese e paese cambia l’approccio nei confronti di queste discipline. E “tradurre” una dieta, ad esempio, significa entrare nelle abitudini alimentari di un popolo. “Basti a pensare che in Occidente adottiamo principi nutritivi calcolati su base quantitativa – prosegue Santos –, in Cina invece si guarda all’aspetto energetico, qualitativo”. E dove non esistono “le parole per dirlo”, i docenti dell’ateneo le inventano: “Abbiamo creato anche dei neologismi”. Alla storia e all’uso dei visitatori di Expo decretarne poi la fortuna.
Al progetto lavorano anche gli studenti del polo universitario: 31 i tesisti della fase uno, 52 quelli che parteciperanno alla seconda. Numeri importanti per un progetto che riguarda cinque continenti e 6 alfabeti diversi. “Neanche l’Onu e l’Unione Europea promuovono lavori così complessi”, continua Santos, che immagina applicazioni innovative per il database, come glossari per iPad, smartphone o dizionari da consultare online o su cd. Idee che hanno guadagnato a “Parole per mangiare” una nota di merito dal comitato scientifico di Expo 2015. Il primo prodotto “sfogliabile” sarà il vocabolario trilingue, coordinato da Giuliana Garzone, ordinaria di Lingua inglese. Si ispira al dizionario pubblicato in occasione dell’Expo di Shanghai e omaggia il precedente evento accogliendo il cinese insieme all’idioma ospite, l’italiano, e alla lingua franca, l’inglese. “Ma la presenza del mandarino – spiega la Garzone – è anche una testimonianza del suo futuro peso nelle comunicazioni internazionali”. “Parole per mangiare” ha due partner d’eccezione: l’Istituto Confucio di Milano, tra i primi a sposare il progetto con risorse economiche e scientifiche, e il Gruppo Autogrill Spa, che oltre a patrocinare il lavoro del Dipartimento di Lingue ha messo a disposizione l’esperienza guadagnata nel comunicare il cibo e l’alimentazione in 35 paesi del mondo. E anche la Cina, secondo indiscrezioni emerse durante la conferenza stampa di presentazione del progetto, avrebbe staccato un assegno per sostenere le ricerche dei docenti milanesi. Bere e mangiare. Ma alla tavolata di Expo si potrà anche conversare.
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]]>Il consumo del vino cinese dal 2006 al 2010 è aumentato di 128 milioni di cassette, cioè 1,5 miliardi di bottiglie, con un incremento di 140%. Si prevede che dal 2011 al 2015 il consumo del vino dei cinesi aumenterà ancora del 54,25%, nel 2015 il consumo annuale di ogni cinese arriverà 1,9 litri. Secondo gli esperti del settore, adesso i cinesi preferiscono ancora il vino rosso, che rappresenta il 91% del consumo totale, ma nei prossimi 5 anni il vino bianco diventerà gradualmente il vino favorito dei cinesi.
La Francia resta il primo paese esportaore di vino in Cina: nel 2010, il 42,74% del vino importato della Cina è venuto dalla Francia. Al secondo posto l’ Australia. Si prevede, nel 2015 la Cina diventerà il secondo paese per importazioni di vino dopo il Regno Unito.
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